Martin Scorsese e la Sicilia nel sangue
Giugno 16, 2025

“Mio nonno parlava in siciliano, ma io non capivo. Fino al giorno in cui vidi un film di Frank… E all’improvviso, quel suono dimenticato divenne casa.” – Martin Scorsese
C’è un momento, nella vita di chi cerca, in cui la memoria prende il volto della pellicola e il passato smette di essere soltanto un racconto. Per Martin Scorsese, quel momento è stato un incontro: non con un attore o una sceneggiatura, ma con il suono antico della lingua siciliana, ritrovato nel film di un regista, anche lui siciliano, Frank – come lo chiama lui. Una visione che ha scosso la sua identità come un vecchio albero che, nonostante la distanza, ha ancora le radici piantate nella stessa terra rossa di sole e di storia. Martin aveva poco più di 5 anni.
Perché Scorsese è figlio di Sicilia, anche se nato a New York. E quel sangue, sedimentato e silenzioso, ha continuato a pulsare nei suoi film, nei suoi personaggi disillusi e fragili, nelle inquadrature strette sulle rughe della colpa, sulla violenza come destino, sull’umanità perduta eppure sempre cercata.
La scoperta di un’identità

Il film di Frank – verosimilmente Frank Capra, anche lui di origini siciliane – è stato per Scorsese una rivelazione. Guardandolo, ha sentito i suoi nonni risorgere dalla pellicola, ha riconosciuto una lingua che aveva solo ascoltato da bambino, e capito che dentro di sé non c’era solo Little Italy, ma una terra più antica, più dolente, più vera: la Sicilia.
In quel momento, il regista non ha soltanto compreso le sue origini. Ha decifrato una chiave universale: siamo tutti figli di qualcosa che abbiamo dimenticato. E questa dimenticanza, nella sua cinematografia, si fa colpa, si fa redenzione, si fa inquadratura tremante sull’anima.
Una regia che parla di noi
Chi conosce Scorsese lo sa: la sua regia è nervosa, pulsante, piena di dolori mai sopiti. Ma è proprio questa instabilità a renderlo geniale. I movimenti di macchina nei suoi film non cercano solo il volto, ma l’anima del personaggio. Come in Taxi Driver, dove Travis Bickle non è che un Ulisse metropolitano senza Itaca, o in Silence, dove il martirio diventa riflessione sull’identità e sul silenzio divino – e forse anche sul silenzio della memoria.
Ecco perché la scoperta del Siciliano in quel film lo ha travolto: era la sua lingua non detta, il suo Dio taciuto, la sua terra fantasma. La Sicilia, per Scorsese, è un “non luogo” in cui tutti possiamo riconoscerci: abbandonata, conquistata, piegata, ma mai spezzata. Proprio come i suoi protagonisti.
Un film che ci riguarda

Quel film di Frank, che parlava siciliano, non è solo una madeleine personale per il regista. È lo specchio per noi spettatori, figli di una contemporaneità che recide le radici e si illude di essere autosufficiente. Ma la verità è un’altra: siamo tutti immigrati. Nella geografia, nel cuore, nella memoria.
Lo siamo quando lasciamo i nostri paesi per cercare fortuna, o siamo quando rinunciamo alla nostra lingua per “adattarci”. Lo siamo anche quando smettiamo di raccontarci da dove veniamo, perché ci hanno convinto che non è più importante.
Il cinema di Scorsese, in fondo, è una preghiera laica per chi è in viaggio senza più una mappa. E quel film in siciliano ha acceso una stella sulla sua, e sulla nostra, rotta smarrita.
Un’eredità che ci chiama
C’è una scena ne L’ultima tentazione di Cristo, dove Gesù, stanco e dubbioso, sussurra: “Padre, ho paura.”
Ecco: è quella la cifra del cinema scorsesiano. Un cinema che non offre verità, ma domande, che non predica, ma accompagna. Come ha fatto quel film in siciliano, come fa ogni storia vera.
In un mondo che ha paura di appartenere, Martin Scorsese ci insegna che la vera forza è riconoscersi figli. Figli di una lingua, di una terra, di un dolore.
“Scoprire la Sicilia è stato come tornare a casa senza averla mai vista. E in quel ritorno, ho capito chi sono davvero.”
Grazie Maestro Martin Scorsese e bentornato in Sicilia e al Taormina Film Festival 2025.