Libero Grassi, Catania
Luglio 4, 2022
Libero Grassi, nato a Catania nel 1924, si trasferisce a Palermo insieme alla famiglia nel 1945 per intraprendere gli studi di legge presso la facoltà di giurisprudenza. Nonostante la sua vocazione a proseguire la carriera diplomatica, decide di portare avanti l’attività di imprenditoria avviata dal padre. Nel capoluogo siciliano, infatti, diventa imprenditore presso lo stabilimento tessile “Sigma”, ma dovrà fare i conti con Cosa Nostra e le richieste di pizzo.
Libero Grassi ha il coraggio di opporsi alle richieste di racket della mafia e di uscire allo scoperto, con una grande esposizione mediatica. Infatti, nel gennaio 1991 il Giornale di Sicilia pubblica una sua lettera sul rifiuto di cedere ai ricatti della mafia:
“Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui.”
Libero Grassi si ribella apertamente denunciando gli estorsori mafiosi. Dichiara esplicitamente in un’intervista rilasciata l’11 aprile 1991 durante la trasmissione Samarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre:
“Io non sono pazzo, non mi piace pagare. È una rinunzia alla mia dignità di imprenditore”.
Esposto a un grave pericolo, senza alcuna protezione delle autorità, il 29 agosto 1991 Libero Grassi morì a Palermo con 4 colpi di pistola mentre si recava a piedi a lavoro.
Qualche mese dopo la morte di Grassi, il Governo Andreotti emana il decreto-legge n.419, convertito in legge n.172/92. Con esso si istituì il fondo di solidarietà in favore delle vittime di richieste estorsive e di usura. L’agguato ha un mandante, poi arrestato nell’ottobre del 1993. Si tratta del killer Salvatore Madonia, detto Salvino, figlio del boss di Resuttana. Accanto a lui, il complice alla guida della macchina Marco Favaloro, che in seguito si pente e contribuisce alla ricostruzione dell’agguato. Madonia è stato condannato in via definitiva, anche al regime del 41-bis, e con lui l’intera Cupola di Cosa Nostra (sentenza del 18 aprile 2008).
Oggi ricordiamo il coraggio di un grande uomo sacrificatosi per combattere la criminalità e la crudeltà della mafia. Mai come oggi le sue parole sono terribilmente contempoanee.